lunedì 29 settembre 2008

Sant'Ignazio di Antiochia

Tra le varie qualifiche ed i vari ruoli che i documenti del Magistero attribuiscono ai Padri della Chiesa, figura in primo luogo quello di testimoni privilegiati della Sacra Tradizione.
Tra essi i più vicini alla freschezza delle origini sono i Padri Apostolici, coloro, cioè, che hanno ricevuto il kerigma dagli Apostoli o dai loro diretti collaboratori e lo hanno fatto risuonare nella loro vita e nei loro scritti, dando un'immagine fedele della Chiesa primitiva.
Per la testimonianza portata e provata usque ad sanguinis effusionem brillano i santi vescovi Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne che la Chiesa proprio come martiri festeggia, rispettivamente, il 17 ottobre e il 23 febbraio.
Ignazio, chiamato anche Teofòro, fu vescovo di Antiochia, la città della Siria evangelizzata da Barnaba e Paolo, in cui per la prima volta (secondo Atti 11,26) i discepoli del Signore furono chiamati "cristiani".
Di lui ignoriamo la data di nascita, ma sappiamo da Eusebio di Cesarea (autore, agli inizi del IV secolo, di una Historia Ecclesiastica) che fu il secondo successore di San Pietro sulla cattedra di Antiochia e che il suo episcopato iniziò l'anno primo di Vespasiano, cioè nel 70.
Giovanni Crisostomo e Girolamo concordano nel ritenere che conobbe ed ebbe relazioni con gli Apostoli.
Durante l'impero di Traiano fu imprigionato e, condannato ad bestias; fu accompagnato a Roma da un manipolo di soldati, nell'anno 107.
Dalla Siria, attraversando l'Asia Minore e passando per Filadelfia di Lidia, fecero tappa sicuramente a Smirne, dove Ignazio fu visitato oltre che da Policarpo, vescovo della città, anche dai vescovi Onesimo di Efeso, Dama di Magnesia sul Meandro, Polibio di Tralli, a ciascuno dei quali consegnò una lettera diretta alle Chiese locali da essi presiedute.
"...Il giorno nono prima delle calende di settembre" (cioè il 24 agosto) scrisse altre una lettera ai Romani che affidò agli efesini affinchè la recapitassero precedendo il suo arrivo nella capitale dell'impero.
La tappa seguente fu a Troade dove Ignazio fu raggiunto dai diaconi Filone della Cilicia e Reo Agatopodo di Antiochia con la notizia di una pace ritrovata nella Chiesa di Siria.
Da Troade Ignazio inviò tre lettere: una alla Chiesa di Filadelfia e due a Smirne, distintamente alla comunità e al vescovo Policarpo, alla cui sollecitudine pastorale affidò il gregge di Antiochia e la sede rimasta vacante dopo la tribolazione che aveva provocato il suo arresto.
Non potè scrivere a tutte le altre Chiese che aveva nel cuore dovendo, a causa di un ordine improvviso, imbarcarsi per Neapolis in Macedonia. Di qui, per la via Egnazia, giunse a Filippi accolto dai cristiani di quella città, come ricorderà Policarpo nella sua lettera.
Insieme ad altri due prigionieri, i martiri Zosimo e Rufo, Ignazio dovette proseguire fino a Durazzo in Illiria e poi, giunto a Brindisi via mare, fu condotto a Roma per la via Appia.
Secondo le fonti, Ignazio coronò con il martirio la sua esistenza terrena per nascere al cielo il giorno 20 dicembre dell'anno decimo di Traiano.


Delle sue lettere i manoscritti ci hanno trasmesso tre recensioni: una lunga di dodici epistole, con aggiunte; una media, di sette, suffragata da numerose testimonianze; una brevissima, di sole tre lettere, in forma contratta.
La recensio media, la più accreditata ancor oggi, è il textus receptus, accolto anche nel lezionario della Liturgia delle Ore in brani scelti per la meditazione comunitaria e personale.
Le lettere di Sant'Ignazio dalla prigionia non hanno uno specifico scopo dottrinale, il loro genere letterario è piuttosto quello di un diario di viaggio e non tanto del viaggio verso Roma quanto del cammino verso la perfetta unione con Cristo. Diario spirituale, dunque, scritto non per edificazione propria, ma per amore verso la Chiesa cattolica (Sm 8,2): dove passava gli andavano incontro i fedeli per salutarlo, parlargli e ricevere consigli. Grande era il prestigio di uno come lui designato al martirio. Egli a tutti manifestava il suo affetto e la sua riconoscenza; solo la durezza dei suoi carcerieri (Rm 5,1) e la mancanza di tempo gli impedirono di scrivere a tutte le chiese (Pol 8,1).
Ignazio conosceva sicuramente tutta la Sacra Scrittura, ma sono sufficienti solo pochi riferimenti, per lo più del Nuovo Testamento, perchè il discorso sia ricco di sensi biblici nella maniera più profonda: per lui i santi profeti vissero secondo Cristo perchè preannunciarono il Vangelo (Fld 5,2; Mgn 8,2).
E certamente conosceva bene le epistole paoline perchè ne conserva l'eco in diversi passi delle sue. Sapendo dell'importanza della memoria scritta ha voluto lasciare un testamento spirituale e - anche se con ogni probabilità già in altre occasioni aveva inviato messaggi alle Chiese sorelle - queste sette lettere costituiscono un tesoro prezioso che i fedeli di ogni tempo hanno continuato a custodire e trasmettere.
Vi sono affermati con chiarezza i principali dogmi, compresa la concezione verginale di Maria Santissima, e importanti insegnamenti dottrinali sui sacramenti, sul matrimonio cristiano, sulla costituzione della Chiesa.
Policarpo, il vescovo di Smirne che con Ignazio ha una singolare affinità elettiva, invierà ai filippesi - come essi hanno chiesto (Flp 13,1-2) - copia delle lettere di cui è in possesso.
Ignazio non ebbe, nè potè avere, nelle condizioni in cui scrisse, preoccupazioni letterarie; lo stile è propriamente epistolare, immediato, non indulge in disquisizioni, ma va all'essenziale. Tuttavia le lettere di Ignazio costituiscono una delle opere più insigni della letteratura cristiana antica.
Sono belle perchè espressione di un lirismo e di una mistica vissuti interiormente in un afflato d'amore verso Cristo e la sua Chiesa che la prosa spontanea rende più commovente e più vera.
E' ammirevole l'originalità vigorosa di un temperamento eccezionale: suo desiderio e sua speranza è l'eredità della vita eterna, per questo scrive ai romani di non privarlo, con inopportune intercessioni, della corona del martirio; sua unica preoccupazione sono le pecore del gregge che lupi famelici cercano di divorare (Fld 2,2).
Ignazio si oppone alle tendenze giudaizzanti (Fld 6,1; Mgn 10,3) e ancor più al docetismo che pretendeva insegnare un Gesù disincarbato, con un corpo solo apparente.
Contro gli eretici e gli scismatici, Ignazio ha parole di fuoco: li chiama bestie feroci, cani idrofobi (Ef 7,1), male erbe (Fld 3,2), polloni cattivi (Tr 11,1), becchini (Sm 5,2). Non lo fa, tuttavia, per spirito polemico: agli smirnesi raccomanda di pregare per essi, se mai volessero convertirsi, cosa difficile, ma possibile per la potenza di Gesù Cristo. Ignazio non attacca tanto gli uomini quanto la dottrina gnostica perchè questa minaccia l'unità della Chiesa.
Chissà se anche la persecuzione locale di cui è stato vittima non fu originata dalle intemperanze degli scismatici? Alcuni indizi sembrerebbero orientare a ciò e un approfondimento storico ed esegetico sarebbe interessante.
L'ecclesiologia di Ignazio discende direttamente dalla sua cristologia: egli è il dottore dell'unità... L'uomo che agisce per l'unità (Fld 8,1).
La persona di Cristo è una e da questa unità deriva la nostra unione a Lui: alla sua carne, alla sua passione e morte, alla sua resurrezione.
L'unione con Cristo è l'unione alla Chiesa e nella Chiesa (Fld 4). Dove è presente Gesù Cristo ivi è la Chiesa
cattolica (Sm 8,2): questo termine compare qui per la prima volta a significare non solo l'universalità, ma la totalità e l'autenticità di una comunità riunita intorno al proprio vescovo.
Dio Padre, dice Ignazio, è il vescovo universale: chi inganna il vescovo visibile, inganna quello invisibile (Mgn 3,1-2); tutto si compia con la guida del vescovo che che tiene il luogo di Dio, dei presbiteri al posto del collegio apostolico, dei diaconi incaricati del servizio di Gesù Cristo (Mgn 6,1); senza di loro non c'è la Chiesa (Tr 3,1).
Per Ignazio la gerarchia ecclesiale a tre gradi è l'immagine dell'unità e trinità di Dio, in cui Cristo si è fatto servo per l'amore del Padre fino ad effondere il dono dello Spirito Santo sugli apostoli e, da loro, su tutte le genti.
L'amore per la Chiesa gli suggerisce similitudini forti e delicate a un tempo: un organismo vivo che canta concorde - ad una sola voce - per Gesù Cristo al Padre deve la sua armonia al fatto che "il presbiterato è molto unito al vescovo come le corde alla cetra" (Ef 4,1); i fedeli sono "pietre del tempio del Padre, elevate con l'argano di Gesù Cristo che è la croce, per mezzo della corda che è lo Spirito Santo" (Ef 9,1); il vescovo, fondato su una roccia incrollabile, davanti a coloro che sembrano degni di fede e insegnano l'errore, "stia fermo come l'incudine sotto i colpi" perchè è proprio del grande atleta incassare i colpi e vincere (Pol 3,1).
Il suo stesso sentirsi "frumento di Dio" e perciò desiderare di essere "macinato dai denti delle fiere per diventare pane azzimo di Cristo" (Rm 4,1) non è fine a sè stesso - quasi cercasse nel martirio una glorificazione personale, come altri la cercano nella morte in battaglia - ma è la sua offerta per l'edificazione della Chiesa (Tr 13,3; Ef 1,2; 21,1; Sm 10,2).
Ignazio, continuamente, insiste sulla umanità di Gesù, con termini realistici della vita fisica e vegetativa, per richiamare la vera natura della sua carne che è la nostra carne, della Sua sofferenza che è la nostra sofferenza, della Sua resurrezione che è la nostra resurrezione; la ridondanza dell'avverbio "realmente" (Sm 1-2; Tr 9. 1-2) mira a combattere l'errore dei doceti per i quali l'umanità di Cristo fu semplice apparenza, senza realtà oggettiva per cui la sua vita fu una fantasmagoria e l'eucarestia non è la sua carne e il suo sangue.
Ma Ignazio, che di quella carne e di quel sangue (Rm 7,3; Fld 4) si nutre, insiste altresì sulla divinità di Cristo, per affermare l'azione del Padre su di noi attraverso il Figlio, al punto di asserire che il nostro Dio Gesù Cristo si manifesta maggiormente ora che è nel Padre: quando infierisce l'odio del mondo nelle persecuzioni allora vuol dire che il cristianesimo e la sua diffusione non è più effetto di persuasione umana, ma opera della potenza divina (Rm 3,3).
Infatti: perchè mai Ignazio dovrebbe bramare di essere sbranato se ciò che il Signore nostro ha fatto è solo un'apparenza? Inutilmente morrebbe (Tr 10; Sm 4,2).
Nel pensiero del santo, il martire è testimone della morte e resurrezione di Cristo perchè, unito spiritualmente a Lui, va incontro alla morte realmente, cioè consapevole della realtà della debolezza umana, ma sicuro della vita eterna.
I cristiani sono il frutto incorrutibile della croce: membra di Cristo, la loro unione al capo è la prova della fedeltà di Dio che chiama alla sua stessa indeffetibile vita (cfr Rm 7,2; Tr 11,2).


Collegamenti:

Abbreviazioni:

  • Ef = Ignazio agli efesini
  • Sm =...".........." smirnesi
  • Mgn = "........ ai magnesi
  • Tr =....."........." tralliani
  • Rm=...."........." romani
  • Fld =..."........." filadelfiesi
  • Pol =..."........ a Policarpo
  • Flp = Policarpo ai filippesi





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