giovedì 26 giugno 2008

CAP. II – Quel bambino che giocava in un cortile.

2)-Segue dal cap. 1

Sa mastra, bontà sua, ci faceva lavorare molto in classe e aveva la saggezza di non darci compiti scritti a casa. I pomeriggi erano quasi liberi: potevo studiare la lezione assegnata nell’immediato dopopranzo e ripassarla la mattina presto, prima della scuola.

Nell’esame di passaggio alla scuola media, fummo tutti promossi. Il regalo che ricevetti io fu un agognato paio di pattini a rotelle. Grossi, pesanti, difficili da mettere ai piedi, occorrevano scarpe robuste, scarponcini invernali anzi, ché bisognava regolarne la lunghezza e poi stringere bene i fermi, perché non scappassero in punta.

Dopo molti tentativi e molte cadute riuscii a restare ritto e dopo altri tentativi ed altre cadute imparai ad andare avanti e indietro nel corridoio di casa, dopodiché mi sentii pronto per unirmi agli altri fortunati possessori di pattini. Il luogo delle nostre evoluzioni erano i “giardinetti” nella terrazza sopra la stazione della “Satas”, dove, con un minimo di attenzione, non c’erano pericoli per sé e per gli altri. Ma in un caldo pomeriggio d’estate, quando tutti i cristiani assennati se ne stavano rinchiusi al fresco e le strade erano deserte, volli tentare una missione impossibile.

Mi portai in cima ad una salita, sul marciapiedi, e indossai i pattini. Mi misi in piedi tenendomi vicino al muro, mi assicurai che nessuno venisse su per l’erta e mi staccai puntando in basso.
Realizzai immediatamente il rischio. Chi conosce le discese di Nuoro, può capirlo e, forse, in qualche modo l’avevo capito anch’io, perché avevo evitato la più ripida, accontentandomi (per il momento!) di quella meno impegnativa. Acquistai subito velocità e, già dopo pochi metri, mi chiesi come avrei potuto fermarmi prima che il marciapiedi terminasse: non avevo spazio per curvare, cribbio! Quei pochi centimetri di alzata della cordonata erano un salto micidiale, in quelle condizioni! Mi buttai a terra da un lato, atterrando sulla spalla e cavandomela con qualche ematoma, ma salvai la testa e la spina dorsale.

*****

Questa mia passione per le discese aveva, probabilmente, una radice. Quand’ero ancora più piccolo e i miei mi portavano al cinema Eliseo per vedere qualche film di cappa e spada o un western, all’uscita scappavo via e, eccitato dalla visione dei cavalli al galoppo, dall’alto di via Roma mi lanciavo follemente nella corsa, fin dove via Deffenu ritorna in piano. Quel marciapiedi, allora, era unico, senza gradini, ed era un bel correre. I miei, dopo essere stati colti di sorpresa la prima volta, mi lasciavano andare senza timore… Almeno fintanto che non feci un ruzzolone e arrivai in basso a dùmida*. Ma, all’epoca, ero fatto di gomma e non ebbi che qualche escoriazione.

Queste esplosioni di vitalità, però, non erano la norma. Il mio terreno di gioco, sino a che non mi involai dal nido, era piuttosto il cortile di casa e le mie occupazioni ludiche erano, perlopiù, tranquille e contemplative.

Nello stretto vicinato, quando i vecchi inquilini di mia nonna si trasferirono altrove e venne ad abitare un’altra famiglia con una bambina, fui, per un paio d’anni, l’unico maschietto. Mia sorella e le sue amichette, più grandi di me, subivano con sopportazione la mia presenza tra loro e non mi degnavano di eccessiva confidenza. Da parte mia non mi andava di unirmi ai loro giochi e passatempi da femmine. In quel tempo - avrò avuto sei o sette anni - stavo, dunque, molto per conto mio e, talvolta, inventavo un compagno immaginario per sfidarlo a duello.

Il cortile circondava la casa per tre lati. Era l’ultima porzione della vasta proprietà di mio bisnonno che due guerre, il frazionamento fra gli eredi e gli espropri per la costruzione di edifici pubblici si erano portati via.

Su un lato c’era un terreno incolto, a volte affittato come deposito di materiali da costruzione, ma a volte libero, ottimo per provare lanci di ogni genere di oggetti e per prendere a calci il pallone contro il muro di cinta. Su un altro lato c’era la legnaia, la grande vasca in graniglia per lavare la biancheria grossa e lo stenditoio per il bucato e, poi, uno stretto corridoio dal quale si accedeva al giardino con i lillà e alcuni alberi da frutto, un pergolato ombroso, l’edera, invadente, che aggrediva i muri, la malva per decotti miracolosi, le aiole con crochi, calle, margherite e con le erbe aromatiche, una fila di vasi di gerani variopinti.

C’era, in fondo al giardino, un’aiola brulla, per quel che ricordo mai coltivata, forse perché il suolo non aveva humus e non vi attecchivano che poche erbacce. Ma quello era il regno delle formiche le quali vi avevano costruito un grosso formicaio con diverse entrate a forma di piccolo cono, tronco in cima. Io tentai, a più riprese, di trasformare quel villaggio nuragico in una moderna città con le sue vie e i suoi palazzi, tracciando un reticolo di strade e costruendo manufatti con ogni pezzo di legno e di latta di cui venivo in possesso. Le formiche non vollero profittare del progresso piovuto gratuitamente dall’alto e si ostinarono a percorrere le loro strade e ad abitare le loro tane ipogee. Forse perché il risultato, alla fine, somigliava ad una baraccopoli piuttosto che ad una città?
Ma non mi arresi e decisi di dotare la metropoli del massimo del confort: una piscina! Scavai, dunque, la buca, un po’ con una zappa senza manico e un po’ con le unghie (per oltre un mese non ebbi bisogno che mi venissero tagliate). Con un piccolo recipiente andai e tornai, avanti e indietro, per ore, dalla fontanella alla buca, cercando di riempire quello che pareva un pozzo senza fondo. Poi, per diversi giorni, abbandonai l’impresa, finchè un benefico temporale estivo non imbibì a sufficienza la terra e la buca trattenne l’acqua.
La cosa più difficile, però, fu cercare di convincere le formiche ad entrare a mollo. Non ci fu verso. Ingrate!



*Dùmida: mio padre usò proprio questo termine per descrivere il mio rotolare, ma è detto, propriamente, del movimento della trottola che gira rapidamente su se stessa.

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